Alain Elkann e il treno sbagliato

Alain Elkann ha raccontato qualche giorno fa su Robinson, l’inserto culturale di Repubblica, un viaggio in treno fra i “lanzichenecchi” da Roma a Foggia. Tutto quel che è divampato dopo – reazioni indignate, sfottò, polemiche di giornalisti, risposta del quotidiano, presa di distanze della redazione – ha narrato un’altra cosa: l’editoria di oggi corre come un treno senza motrice o così di fretta da saltare alcune stazioni fondamentali.

Che cosa si rimprovera ad Alain Elkann? Di aver dipinto se stesso come un elegante e colto signore isolato tra barbari dediti a musica, telefonini, chiacchiere sul sesso. Il suo giornale l’ha difeso rimproverando ai lettori di non saper riconoscere un brano di letteratura da un reportage e ha inviato un collega a ripercorrere lo stesso tragitto. Ha forse dimenticato un anello: il ruolo di una redazione di fronte a ciò che sta per entrare in pagina.

Nelle redazioni dei giornali esisteva un tempo la buona e rigorosa abitudine di “passare i pezzi”, che non era il prezioso e raffinato lavoro dei correttori di bozze, bensì un esame di contenuti e forma dell’articolo: dall’impostazione al passaggio suscettibile di querela, dal termine equivoco o usato a sproposito all’affermazione inopportuna. Non un censura o una lezione da parte di chi crede di saperne di più, anzi un umile lavoro al servizio dell’autore, un occhio distaccato che può vedere le sbavature che sfuggono a fretta, entusiasmo, indignazione. Qualcosa d’analogo, ma più ampio e complesso, accade in casa editrice con l’editing di un romanzo. Ciò pare essere mancato a proposito del vituperato treno.

Pare evidente che Alain Elkann tendesse – per la sua natura, per il suo gusto – più al bozzetto letterario che a una cronaca, a un dipinto che raffigurasse il confronto fra una vita con stile, cultura e conoscenza del mondo e altre vite da lui liquidate come un girotondo di soddisfazioni tra il banale e il grossolano. Questo dipinto è uscito infelice, con i colori sbagliati, le pennellate leziose o sprezzanti. Il quesito è: qualcuno gliel’ha fatto notare prima di metterlo in pagina? qualcuno ne ha discusso con lui e lui ostinatamente ha ritenuto intoccabile il suo racconto?

Bastava poco a rendere più lieve e ironico il bozzetto senza sfumare il contrasto fra personaggi, perfino accentuandolo. Personalmente avrei espresso all’autore i  dubbi sull’impostazione, che poteva accendere reazioni come accade con certe sortite – prive di Prosut  – di Flavio Briatore. E avrei proposto: lascia perdere la prima persona, passa alla terza, diventa spettatore-narrante di un contrasto fra generazioni, gusti, comportamenti e caricalo sottolineando benevolmente  lo stile “antico” del viaggiatore-lettore e trasformando i lanzichenecchi in gaudenti alla giornata come ne vediamo ogni giorno, giocando sull’invisibilità dell’uomo come schiaffo alla vanità e insieme fortuna e spazzando via quel vento di sfogo. Alain Elkann capisce bene queste accortezze, tanto che lui stesso ha scritto nel suo Diario inverosimile: “Abbiamo parlato di scrittura, di quanto sia difficile astrarsi dalla vita per potersi concentrare (…) Il lavoro sulle parole  non finisce mai. E’ un impegno quasi maniacale, come quello di un cesellatore”:”.

Dunque  “si può,” anzi  per rispetto “si deve” discutere in redazione uno scritto. Si è letto ovunque: “Il giornale del quale è editore suo figlio”, “prima genero di Agnelli poi padre di John”. Che significa questo? Che i suoi articoli  sono avvolti da una sacralità inviolabile? Non credo. Il sottoscritto ha lavorato per anni alla Cultura della Stampa e per anni ha “passato” e titolato i pezzi di Elkann, avendo dai redattori capo Giorgio Calcagno, garbatissimo e inflessibile, e Alberto Sinigaglia, signore dalla grande mediazione, incarico di intervenire come  per qualsiasi altra firma. Mi è capitato di eliminare una ripetizione, di limare o riscrivere un botta e risposta adatto ai ritmi televisivi ma evanescente in quelli della scrittura, di reimpostare un’intervista, di telefonargli: “Alain, se questo capoverso lo sparassimo come sorpresa nel finale?”. Elegante ma non per questo altezzoso, non mi risulta che si sia mai lamentato (sarebbe stato facile affidare gli articoli a un altro), e incontrandoci in redazione non si è mai risparmiato un “grazie per ieri”.

Briatore vorrebbe che i figli degli operai facessero gli operai e quelli dei banchieri i banchieri, ma non funziona così. Alain Elkann è un giornalista e uno scrittore e, con il rispetto, merita l’attenzione ai suoi scritti prima che escano, non dopo, accodandosi a critiche, sberleffi e alla polemica sulla sua storia familiare.

Comunque, la prossima volta che prendi un treno, caro Alain, ricordati di quel che il tuo caro Proust scriveva in All’ombra delle fanciulle in fiore: “Si dovrebbe, per prudenza, non parlare mai di sé, perché è un argomento sul quale si può essere certi che la vista degli altri e la nostra non concordano mai”.