De André e la gabbia del razzismo

Fabrizio De André indagava  le radici dell’odio, ma ne parlava senza lasciarsi trascinare per i capelli a toni eccessivi, la sua misura era la poesia. Accadeva di parlare di quotidianità qualunque e il discorso, d’improvviso, entrava in una ferita della società. Allora lui ti guardava negli occhi, dava un tiro o due alla sigaretta, e lasciava volare una, due, tre frasi nitide, rallentate da una pausa tra una e l’altra, talora le precisava, affinché ogni concetto fosse scolpito..

Non l’ho mai visto inalberarsi, imporre un’opinione. Disegnava una realtà lasciando che tu la guardassi da ogni suo lato. E’ accaduto chiacchierando di coloro che rapirono lui e Dori. E’ accaduto parlando di tensioni e scontri nei vicoli di Genova tra immigrati, residenti e polizia. Che cosa – è stata la continua domanda di questo ultimo anno e di questi ultimi giorni – direbbe ora di fronte a teste rasate che irrompono in una sede di volontari, di fronte alle grida incappucciate o meno sui social, di fronte alla sparatoria di Macerata?

Mi sono reso conto che aveva già risposto in uno di quegli appunti che scriveva su quaderni o buste da lettera, ricevute di ristorante o fogli sparsi e che la Fondazione De André ha raccolto in un volume, Sotto le ciglia chissà, con una scelta ampia, accurata e prudente compiuta da Dori Ghezzi, che davanti a ogni frase si è domandata: “Lui l’avrebbe pubblicata?”.

Scrisse Fabrizio: “Con i razzisti e con i nazisti non si convive, non si tratta, li si chiude, loro sì, dentro quattro mura, e che dimostrino lì la loro autosufficienza, le loro capacità di uomini superiori, la loro grande forza esercitata, chissà perché, sempre e soltanto con i deboli”.