Cronaca nera: cacciatori e selvaggina

La cronaca nera in tv e nei siti dei giornali – poi rilanciata sui social – di giorno in giorno scivola dall’informazione alla sfida tra predatore e selvaggina.

La Corte d’Appello ha confermato i vent’anni per Antonio Logli, accusato di aver ucciso la moglie Roberta Ragusa scomparsa nel nulla, e abbiamo assistito al placcaggio dell’imputato muto fuori dall’aula. Quanto è ovvio e legittimo cercare una sua dichiarazione tanto è ovvio mettere in conto che lui rifiuti di rilasciarla. Invece è parso d’assistere a una scena quasi fine a se stessa. Non parla? Poco male, fa spettacolo anche il suo silenzio. Per altro condito con commenti stonati (un tg ha definito imperturbabile un uomo con la faccia stranita e che non si reggeva in piedi) oppure  quasi offesi: “Non risponde ai cronisti”, come avesse mancato a un imperativo morale.

Il  caso Logli è ancora “morbido” rispetto ad altri. Guardando la routine quotidiana si fatica a trovare il confine tra cronaca e spettacolare intrattenimento E’ giusto, è logico, è sensato che i giornalisti cerchino di parlare con imputati, con assolti, con condannati. Cioè con uomini e donne la cui esistenza sta subendo comunque una svolta. Un tempo (senza far classifiche fra epoche migliori o peggiori) il cronista che tornava da un servizio senza risultati provava un senso di fallimento: lo scopo per il quale era partito non era stato raggiunto. Oggi – quando il filmato è tutto e le parole sono riempitivi o, spesso, vanitose esibizioni – le immagini del braccato e dell’inseguitore sono “forti” come l’intervista, sono un buon bottino, gag sdoganata anni fa da Striscia la notizia, che per sua natura fondava e fonda proprio su fuga e inseguimento parte del successo. Quel tipo di scene sono diventate un servizio perfino trionfale, uno spettacolino sadicamente divertente..

Se è vero che in certe situazioni della cronaca (fatti clamorosi in scena in tribunali, caserme, questure) il branco è inevitabile, non è vero che è inevitabile il prolungamento dell’assalto, anzi lì si fa strada il lavoro paziente, la capacità di interagire. Il giornalismo per immagini ha altre esigenze rispetto a quello scritto, d’accordo, ma lì sta la grandezza del cineoperatore o del fotografo. Ho lavorato negli anni con grandi fotoreporter (Sergio Solavaggione ha di recente pubblicato un bellissimo libro, Obiettivo sensibile, Daniela Piazza editore, dal quale è tratta la foto qui in apertura) e vorrei tutti citarli perché da loro ho imparato che si può essere tenaci, talora anche imporsi un distacco che rasenta il gelo, eppure sempre con una coscienza: davanti agli occhi, alla macchina, al taccuino c’è una persona, a rischio c’è la sua dignità, che la cronaca non ha bisogno né diritto di calpestare, nemmeno quando quella persona ha calpestato quella di altri. Con Tonino Di Marco percorremmo i manicomi giudiziari e Tonino scattò fotografie drammatiche e poetiche, ma così accurate nel rispetto che nemmeno una ebbe bisogno della striscia nera sugli occhi: la delicatezza della situazione la sentiva mentre lavorava.

Oggi, sempre più, si percepisce un tragico distacco tra l’onnipotenza della Comunicazione cacciatrice e la solitudine della “selvaggina”.