Liberaci dal male, liberaci dal padre

Suscitano pena, nella cronaca d’un quotidiano, i passi dell’uomo un tempo fiero di sé che una notte, ormai smarrito nella demenza, scende al fiume e gli consegna la sua morte. In quella solitudine annegano i suoi giorni di imprenditore – il “re del cioccolato” –  due volte marito, padre, viveur dai piaceri intensi e sprezzanti.

In questa morte – confusione mentale o forse suicidio o perfino omicidio? – sono raggrumate le vite e i tormenti, le catene e il bisogno di libertà, l’ira e la rivalsa di parenti, domestica, badante e poi sbandate figure di città, volenti o no ancorate ai suoi vizi noti o sconosciuti.

Ci sono la corsa scellerata e il ritorcersi sofferente di più esistenze satelliti di quella del defunto in Non è colpa mia (Golem edizioni), affascinante romanzo di Valeria Bianchi Mian, psicoterapeuta, saggista, autrice teatrale, che dall’esperienza dello psicodramma porta tempi, linguaggio, tensione a questa storia di resa dei conti degli affetti con realtà disvelate e rancori.

Arturo Colzi, uomo ricco di fascino, ha guidato l’azienda dolciaria fondata dal nonno e lanciata dal padre. Ha avuto una raffinata e mite moglie e con lei due figli, una morta di cancro come la madre, l’altro, Riccardo, destinato ad affrontare il declino e le difficili scelte ora che la precoce deriva mentale ha allontanato Arturo dagli affari. Ha una seconda moglie, più giovane, arrivista, altezzosa ed erotomane. Accudisce le sue nebbie una badante rumena, in ansia per un figlio sfaticato e giocatore d’azzardo. Cura la casa una vecchia domestica, accorta testimone d’ogni segreto, legata alla leggenda – o forse a un pizzico di verità? – delle masche, le donne-streghe che lanciavano sventure nelle campagne della sua infanzia. S’aggira intorno a loro una tossicomane pronta a darsi e a pretendere, custode feroce di un orrore condiviso.

Annunciata in apertura la solitaria e ultima camminata dell’uomo, in pigiama di seta e pantofole, verso il Po, il romanzo ripercorre i giorni precedenti la morte. Riccardo, il figlio alle prese con le difficoltà dell’azienda, con il bivio tra fallimento e cessione a una multinazionale, si dibatte tra i ricordi e il presente, cercando e scoprendo la propria identità, svelando a se stesso quella del padre.

Ambizioni, stanchezze, sfide, silenzi e rivalse di ognuno si incontrano e si discostano in una Torino che evoca quella di Giovanni Arpino nella Suora giovane, in Un’anima persa, in Domingo il favoloso. Una Torino palpabile nelle ville di precollina, nei bar di Porta Palazzo, nell’anonimato di periferia. Una Torino ovattata e d’improvviso accesa che è insieme se stessa e una simbolica città strattonata fra tradizione, contraddizioni, mutamento.

Arturo Colzi, che tanta pena accendeva con la sua ultima passeggiata, svela se stesso agli altri, svela il padre al figlio, proprio quando lui stesso non si conosce più. Le tensioni che ha creato, l’oppressione che ha seminato invocano libertà, non tanto da un individuo quanto dalla sua presenza nella memoria, Tutti devono risolvere la propria vita e, in un bel romanzo, profondo e scattante, intrecciano una ragnatela che prevede sopravvivenza psicologica soltanto con il sacrificio del ragno.