Scerbanenco, il Male viene dal cuore

Assuefatti allo spettacolo del delitto in tv e sui giornali, dovremmo tutti – chi la cronaca scrive, chi la commenta  e chi con essa pasteggia – rileggere Giorgio Scerbanenco.

Indotti a perdere ogni traccia d’umanità davanti alle grandi tragedie come fame e migrazioni, nemmeno avvertiamo più emozioni e grida spente da un delitto di città o di provincia. Ci nutriamo di dettagli, giochiamo ai pubblici ministeri, ai difensori, ai giudici, ascoltiamo e discutiamo opinioni di “esperti” che sanno quel che sappiamo noi o poco più, seguiamo i processi come fiction o spettacoli teatrali (“voce!”, gridò uno dal pubblico durante l’Appello per la tragedia di Cogne), applaudiamo o fischiamo sentenze spesso mal riassunte dai media, contiamo gli anni di condanna come risultati di una partita di calcio.

Giorgio Scerbanenco affrontava invece il Male – stagni grigi del pensiero e scarti improvvisi della vita, silenzi e disperazioni, violenza e morte – per la loro vera strada tortuosa: come un entomologo sfiorava con la sua lente gesti, palpiti, immobilità e slanci dei protagonisti, si insinuava nelle pieghe invisibili della volontà e dell’emotività, mai vestendo i suoi personaggi con abiti di scena funzionali a un ruolo. Senza essere confessore né psichiatra, entrava nell’agire e nel sentire come un rilevatore dello spirito, come un’ombra che si impregna delle più invisibili e impalpabili tracce. Offriva uno sguardo imparziale e spontaneo, attratto dal singolo animo anziché dalla ricaduta sociale e politica, un po’ come De André con i suoi derelitti e i suoi sventurati.

Queste riflessioni sono sgorgate leggendo Luna di miele, romanzo breve scritto nel 1944 in un campo profughi svizzero, dal ’45 a oggi mai ripubblicato e ora riproposto – a cura della figlia Cecilia – da La Nave di Teseo. I primi passi sono quelli d’un amore di paese, fra Alberto ed Eva, non interrotto ma impedito da un’amica di lei, Lena, la quale – sfruttando una notte d’avventura – simula una gravidanza e “s’impossessa” dell’uomo, facendosi sposare. Una vera figlia, Lucia, verrà negli anni successivi, a lato della scena per tutta la vicenda, ma vittima totale degli eventi.

Lena si rivela insofferente, sprezzante, irosa, petulante, fino a condizionare la vita d’Alberto nelle piccole e nelle grandi cose, facendo crescere in lui un groviglio disperante di  insofferenza e nostalgia. Una convivenza destinata a troncarsi rabbiosamente: potrebbe esser liquidata con una fuga, invece si accartoccia in un delitto d’impeto. Incagliati in un appuntamento preso prima del furore, Alberto e Eva fuggono insieme, seguiti dapprima a distanza e poi sempre più da presso dal parroco che li ha visti bambini e che è io narrante lacerato fra lo schematismo della sua formazione bigotta, la capacità umana di indagare la spartizione di responsabilità, il senso più profondo di compassione, lo sgomento di fronte a un interrogativo: quando e come la Vita scivola nel Male e da qui nella Morte?

Racconta Cecilia Scerbanenco che il padre, nel campo profughi, fu sostenuto da un sacerdote e che a lui – per nulla contento dell’opera finita – dedicò l’immersione nella visuale religiosa di fronte al crimine. Nel romanzo questa scelta diventa narrazione sdoppiata per il “peccato” di fantasia attraverso il quale il religioso sente, vede, interpreta gesti qualunque e perfino gesti intimi della coppia, diviene segugio della pazienza, della ribellione, dello scatto irreparabile, della metamorfosi che repentina s’insinua nel candore di Eva, limpida di dedizione nonostante il nome evocativo di peccato, fino a quello che con il senno di poi chiamiamo destino.

La grandezza di Scerbanenco siamo abituati a riconoscerla nel maestro del noir, dove approdò per geniale intuizione e insistenza di Oreste Del Buono, che già coglieva nei romanzi rosa il pescatore di sfumature tragiche disciolte nel contesto sociale. Già nel “rosa” periferie, sogni, frustrazioni, aneliti contenevano un impasto di sacrificio e rivalsa, slancio e fatica, dedizione e rabbia che poi trionfano nelle notti assassine milanesi, nel cinismo criminale, nel massacro in scuola. Un terreno di dolore dove Scerbanenco si muove ombra accanto alla donna, all’uomo, al “deviato” e all'”innocente” perché possa svelarsi come in un’attonita solitudine.

Per tutto questo Scerbanenco non ha scritto, né in una fase creativa né nell’altra, romanzi di genere, bensì letteratura attenta al barcollare umano tra desiderio e rinuncia, stupore e cecità morale, quiete e violenza. Una letteratura nella quale potremmo scoprire il filtro per misurare e trasformare in conoscenza – anziché ingozzarci voraci –  la cronaca morbosa, a tinte vivide, priva di sfumature, illuminata come uno spettacolo e spietata come un gioco.