Franzoni: una tragedia, non una sfida

Franzoni Annamaria: condannata per l’omicidio del figlio. Annamaria Franzoni: pena scontata, donna libera, moglie e madre, con diritto alla quiete (a meno che non sia lei a chiedere telecamere).

Due sciagure in più si abbatterono su quella tragedia. La prima fu l’esaltazione mediatica della quale lei stessa fu disperatamente complice. La seconda furono indagini difensive – nella fase gestita dall’avvocato Taormina – che spargevano sospetti  vaghi su figure alternative, purché fossero o fossero ritenute individui fragili o strambi, poco attrezzati per difendersi.

Una cosa fra le altre mi colpì di Annamaria. Mentre si prospettava una rosa di nomi, tutti uomini, lei imperterrita indicava la vicina di casa. Mi convinsi che una nebbia interiore la guidasse, che sbagliasse eppure fosse sinceramente convinta: parlava di una donna della sua generazione, che abitava nello stesso posto, con figli., come se il ricordo fosse reale, ma insopportabile, inaccettabile al punto di estrarlo da sé e calarlo in un alter ego, nella figura che fra tutte più caratteristiche aveva in comune con lei  (analisi approfondite e scientifiche in questo senso scrisse il professor Ugo Fornari nella sua perizia per l’accusa).

Tante parole si fanno anche ora che è finita la pena e le parole spesso paiono ancorate al disastro emotivo del primo anno. Sono ancora convinto che valga pure oggi come monito il commento che scrissi dopo la sentenza della Cassazione.

Da La Stampa del 22/5/2008

E’ finita, dopo sei anni e cinque mesi. E ora, mentre Annamaria Franzoni scivola in un altro tipo di sofferenza, proviamo noi a fare un passo indietro: pietà anziché vendetta appagata.

Si è parlato tanto di processo mediatico. Che c’è stato e, talk show dopo talk show, ha travolto e stravolto le emozioni degli spettatori. Nei primi giorni fu orrore per un bambino massacrato, poi l’Italia si spaccò tra innocentisti e colpevolisti, Italia a volte sofferente, a volte morbosamente incline al voyeurismo, a volte cinicamente tifosa, come se fosse una partita di calcio. Con la difesa dell’avvocato Taormina, con il cambio di strategia, lo spettacolo arrivò al culmine: la madre di Samuele a raccontarsi e difendersi nei salotti tv, lacrime e telecamere, un fuori onda nel quale domandava ho pianto troppo?  Sempre più protagonista, sempre più subita – da chi assisteva – come abile attrice che sventola un’improbabile innocenza

L’overdose di parole e singhiozzi rtracimò nell’antipatia verso la persona, nella dilagante sete di una giustizia che punisse, più che il delitto, quelle esibizioni di disperata difesa.

Si è gonfiata così una fetta d’Italia più indignata per lo show che attenta ai passi giudiziari, più rancorosa verso l’imputata da teleschermo di quanto fosse sgomenta per la memoria del figlicidio, e fetta d’Italia che in quegli anni di vicende processuali senza esito definitivo incarnava nella sua storia, quasi attribuendola a lei, la lentezza del nostro sistema giudiziario.

Quell’Italia si è trovata a viaggiare discosta da magistratura e legali. Le toghe dibattevano su una responsabilità oggettiva, quella che ora hanno riconosciuto e condannato. Gran parte del pubblico, invece, si è confusa, si è fatta nervosa, bisognosa di una sentenza che punisse il lungo iter costellato di pianti, singhiozzi, viso trasfigurato, voce cangiante a comando, forse istintivo e non costruito.

Adesso che la Corte di cassazione ha chiuso la partita, è giusto archiviare antipatia, odio per un simbolo. Sarebbe ferocia inutile, sarebbe debolezza gioire per una porta di carcere che si apre. Pur chiedendo una pena di trent’anni, nella requisitoria d’Appello, il Procuratore Generale Vittorio Corsi aveva mostrato umanità e dolore: “La quantificazione della pena è pura questione aritmetica. La condanna della signora è nel fatto commesso”. La sentenza ora c’è, definitiva, le emozioni di contorno possono fare un passo indietro e lasciare spazio alla pietas per Annamaria Franzoni travolta dalla nebbia della mente.