Covid 4. Cercando di capire chi saremo

In quest’ultima puntata Giacomo Romagnolo, 19 anni fra due mesi, studente di Giurisprudenza, annota le emozioni del tampone che chiude le due settimane di Covid. Ma non soltanto: da persona che seppur in forma lieve ha guardato la pandemia da dentro, rilegge a mente fredda, un mese dopo, come certe tragedie collettive, secondo un giovane, incidano sulla società. Grazie ancora a Giacomo e grazie ai lettori.

Quattordicesimo giorno. Scrivo la sera, ultima . anzi forse penultima – pagina di un diario che, a rivederlo ora, mi pare abbia le sembianze di un bollettino medico-psicologico. Scrivo la sera e non sul momento perché è stata una giornata piena, intensa, di emozione.

Da un po’ non aprivo gli occhi prima delle 9. Questa mattina ho puntato la sveglia alle 8,30. Non mi son preso minuti di risveglio lento: sono schizzato su e ho aperto il sito Salute Piemonte con un’agitazione da scolaro che scruta i voti. Ci sono modifiche, l’agitazione sale. Sopra il rosso acceso del vecchio tampone positivo c’è una scritta verde, un bel verde: NEGATIVO. Ora capisco gli anziani che quando garantisci qualcosa continuano a chiedere: “Sei sicuro?”. Faccio la stessa cosa, controllo date, virgole. Quando mi stacco dal computer mi rendo conto di non aver lanciato nemmeno una di quelle urla da stadio (che mi vengono tanto bene  alle partite della Juventus e dell’Alessandria). Non c’era tempo per gridare, soltanto per scattare, agire, fare tutto quel che mi passava per la testa, trenta minuti di gesti sospesi da due settimane. Andare in cucina e aprire con le mie mani il frigorifero è stato come battere un record.

I postumi mi accompagneranno ancora per un po’. Ma proprio quel NEGATIVO  dopo così poco tempo,  più del mal di gola, della tosse, del raffreddore, dei gusti spenti, della spossatezza  racconta a che cosa sei scampato, ricorda le centinaia di migliaia di persone stroncate, oppure finite in quel non luogo che per la mente dev’essere la rianimazione, o con l’ossigeno nei reparti, e quelle persone care che nemmeno possono venire a dirti “coraggio”.

Oggi so che è passata e oggi che è passata so ancor meglio che cos’era e che per me è stata soltanto una malattia noiosa e fastidiosa. E so chi sono: non un paziente guarito dal Covid (ciò farebbe pensare a un travaglio clinico che , pur non essendo stata una passeggiata, non è il mio), ma un immune che ha attraversato una sfortuna e una fatica e spera di tornare al più presto alla normalità.

Un mese dopo. Non ho trasmesso il virus a nessuno. E’ il sollievo più grande. Scrutavo, allora, i miei genitori, ma mi tranquillizzavo: li avevo soltanto visti di sfuggita quattro giorni prima dei sintomi. I loro tamponi negativi avevano confermato.  Quanto agli amici con cui avevo cenato nei giorni precedenti, nessun positivo. Se non altro, lanciando l’allarme, ho fatto la fortuna degli studi medici privati nei quali si sono precipitati.

E’ un virus, scivola impercettibile, è difficile stabilire un confine tra innocenza e colpa di un contagio, ma mi rendo conto che anche un solo contagiato avrebbe complicato tutto, avrebbe inciso psicologicamente sul decorso della malattia: sapere che un amico che da te ha avuto il Covid lo sta portando a casa e intorno a sé…

Fragilità. Questo ha messo a nudo il Covid: fragilità di una parte del mondo, quella in cui viviamo, che si credeva invincibile, quasi annoiata e non cosciente delle sue fortune. Com’è facile sbandare: nella prima parte della pandemia, la più dura in termini di chiusure, tutti uniti  intorno agli operatori sanitari e a chi lavorava per mantenere il tessuto economico del Paese, ed era la solidarietà ritrovata, la revisione delle priorità future. Era giugno e pareva che le cose migliorassero. A ottobre l’incubo è tornato con la stessa velocità di febbraio, ma questa volta, oltre a una società impaurita dalla malattia,  ci ha fatto scoprire una società esausta: dai canti sui balconi si è passati alle proteste in piazza, dagli osanna per gli operatori sanitari alla rissa con i virologi.

Sono ben visibili i danni in termini di vite umane, senza precedenti dalla seconda guerra mondiale, ma dei danni psicologici  scorgiamo soltanto i primi lampi, si paleseranno presto e sarà un problema enorme del quale tanti, troppi faticano a rendersi conto.

Noi ragazzi, in un anno e mezzo, abbiamo vissuto normalmente circa tre mesi. Privati della scuola in presenza, della socialità, dobbiamo essere consapevoli che quando si tornerà alla vita piena non sarà un magico ritorno al febbraio 2020, ci saranno conti da fare con questo vuoto, che non si cancellerà come ventiquattr’ore di sonno continuo: è la sensazione di aver avuto una vita precedente, interrotta, con la speranza che ne incominci una simile.

Ci sono stati gli assembramenti, le sfide alla sorte, le bravate, ma i giovani hanno per la maggior parte fatto i sacrifici a loro richiesti per proteggere i nonni, i parenti e in generale le fasce più deboli della popolazione. Non voglio con i miei quasi vent’anni elevarmi a rappresentante dei giovani italiani, ma sono convinto che vedremo – e già stiamo vedendo – una percentuale molto alta decisa a vaccinarsi. Era prevedibile fin dall’autunno, quando in tanti, pur di uscire dall’imbuto, scrivevano sui social: “Sono pronto a iniettarmi qualsiasi cosa, anche la vodka” (non per sparata alcolica ma alludendo al vaccino russo).

Abbiamo una speranza concreta, pur sotto minaccia delle varianti, che tutto finisca. E allora spero che non ci si faccia prendere da inutili e dannose paranoie.

Giacomo Romagnolo (4. fine)