“Belìn, tutto per me?”. E il sorriso di Fabrizio

Il sorriso di Fabrizio, quando era contento o commosso da qualcosa o qualcuno, era delicato, un po’  labbra e molto occhi, racchiudeva affetto e timidezza, trasmetteva gioia per ciò che era fatto bene e di cuore.  E’ facile anche oggi immaginare quel sorriso che significa: “Belìn, quanta roba! Tutta per me?” mentre guarda i primi due volumi di una serie che si chiama I libri di Fabrizio De André, curati dalla Fondazione e da Dori Ghezzi per La Nave di Teseo.

I due titoli iniziali sono Accordi eretici (prima edizione 1997) a cura di Bruno Bigoni e Romano Giuffrida, e Volammo davvero (prima edizione 2007) con introduzione di Sandro Veronesi e postfazione di Dario Fo. Insieme sono settecento pagine che, pur dopo tanti anni, emanano freschezza, affetto caldo e rispettoso, lo stesso che si provava seduti di fronte a lui ad ascoltare, a lasciarsi scappare un commento, un elogio del quale lui misurava non tanto la portata quanto l’entusiasmo, ancor più gradito se felicemente fanciullesco.

Sì, “belìn, quanta roba”. E’ tutta genuina, caro Fabrizio, nessun tributo a un monumento, solo un navigare fra le parole, la musica, la cultura, il sentire, il vivere e guardar vivere. Accordi eretici sgombra subito il campo dalla solita faccenda canzone-poesia. Ricordiamo bene quando Faber citava Benedetto Croce: “Fino all’età di 18 anni tutti scrivono poesie. Dai diciotto anni in poi rimangono a scriverle due categorie di persone: i poeti e i cretini. E quindi io precauzionalmente preferirei definirmi un cantautore”. Ed ecco qui la lettera di Mario Luzi, che – sancito che “la sua poesia c’è” – liquida le proprie parole come possibili questioni di lana caprina e afferma: “Bene, proprio il suo a me pare un caso in cui la distinzione non è da proporre, è perfino improbabile per quanto non sia illegittima”.

Da qui nel libro incomincia un viaggio tra maturazione e “cattivi maestri”, coscienza sociale e politica, compagni di strada (diseredati, reietti, ladri, puttane), lo sguardo su Dio e su un uomo di nome Gesù, le figure femminili, la profondità dei testi e le sorprese del pentagramma.

Volavamo davvero è una colossale antologia di scritti e interventi a convegni riuniti in una collana dove ogni perla completa le altre. C’è tutto, i mondi incompresi (come sinti e rom), la quotidianità professionale del cantautore, il potere evocativo di una voce unica, il linguaggio e i temi sociali (giustizia, etica, guerre, miseria concreta e miseria intellettuale). E affiorano tutti i riferimenti, le citazioni dirette e indirette, sapientemente messe in luce.

Nelle 700 pagine dei due volumi c’è ogni angolo, ogni colore della stupenda vicenda personale, poetica, musicale di Fabrizio, ad opera di una quantità di autori dalle diverse origini ed esperienze, dalla letteratura al mondo musicale, dal sacerdozio al giornalismo

“Belìn, quanta roba” davvero, e quanto affettuosa, e colta. Non è difficile immaginare Faber davanti a queste pagine, soddisfatto e concentrato, intento a sottolineare una frase, a cambiare un aggettivo, a invertire due parole, a scrivere un’annotazione. Forse un altro sorriso suo lo vedremmo mentre con un tratto di penna aggiunge alla caccia erudita agli autori classici ai quali si è dissetato anche il “cuore troppo vicino al buco del culo” e il più esagerato Rabelais che in Gargantua e Pantagruele  scriveva: “Hanno il cuore molto vicino alla merda”.  O mentre più dolcemente annota che Bocca di rosa era il nome dato dall’assassino Moosbrugger a una ragazza nell’Uomo senza qualità di Musil, mentre la vecchia senza più voglia ha antenati nelle Massime di La Rochefoucauld: “I vecchi amano dare buoni consigli per consolarsi di non poter più dare cattivo esempio”. Sorride e precisa, ma non come chi insegna o corregge: come chi si prende cura di un fiore.

Nella postfazione di Volammo davvero Dario Fo raccontava un gruppo di giovani riuniti da Nanni Ricordi (Jannacci , Gaber, Tenco, Bindi, Paoli, Lauzi, Andreasi).  Tutti a esibirsi, con Fo che cantava “La luna l’è una lampadina”. Ma Faber “bisognava scaldarlo”, poi lo si convinceva a prendere una chitarra: e allora abbassava il capo, dopo la prima strofa lo rialzava scuotendo i capelli e tutti gli altri intorno commossi. E in questo brano che chiude il libro Fo commentava citando una ballata di Garcìa Lorca: “Tarderà a rinascere, se nascerà, un uomo così giusto e leale e semplice …”.