La nobiltà del “rosa”

Annaspiamo o ci crogioliamo in una palude di cronaca nera, reale e amplificata dall’intrattenimento da salotto. Una <nera> affollata sempre più da quella fetta di violenza che i reportages dicono scaturire da <un amore malato>: femminicidi e cascate di coltellate, acido, benzina e fiamme. Ma, per quanto malato, è amore dell’altro? O paranoide amore di sé che fa parer quasi una fiction quello vero? Non per antidoto o consolazione, ma per passione letteraria, si possono raccontare amori anche tormentati ma non insanguinati e lo fa con Il domatore di principesse (I Antichi Editori Venezia), Roberto Bianchin, scrittore, giornalista, musicista e, dice lui, saltimbanco, direttore della rivista Il Ridotto (www.ilridotto,info), una vita dedicata a narrativa, teatro (è direttore artistico del Gerolamo di Milano) e per lungo tempo alla cronaca come inviato di Repubblica, una cronaca non di sangue e dettagli, gioco d’ipotesi e spettacolo, ma di persone, anime, storie, ambienti. Nell’Italia spaccata in due tra colpevolisti e innocentisti sul caso Franzoni a Cogne, non fu notaio di indizi, ma scavò i sentimenti, lo stupore e l’ansia dei protagonisti e di una comunità che da paradiso di montagna si risvegliava inferno mediatico.

Bianchin ha sempre collocato con cura le notizie nell’ambiente (senza il quale sarebbero pietre scagliate a perdersi) e così ha fatto nei libri, da Niente rumba stanotte (Marsilio, 2002), avventura di un picaresco gruppo di balordi riuniti in un’isola a pensare un colpo di stato senza retroterra politico, a Kociss (Milieu edizioni, 2013), vera storia di un vero bandito veneziano, Silvano Maistrello, re delle evasioni, tra solitudine e romantica visione del crimine, nelle calli, sui tetti, lungo i rii.

Teatro del nuovo romanzo è un mondo affascinante e poco conosciuto nel profondo: il circo. Un circo senza retorica né luoghi comuni, non respinto a priori né mitizzato. In una diversità così ignota e misteriosa nasce la storia d’amore fra la principessa Michelle e il domatore di elefanti Philippe. Storia che il lettore incontra quando si è già in gran parte bruciata, quando un fatto casuale apre le possibilità di finale. In una giornata di vento, mentre spinge la carrozzella del nipotino, l’aristocratica signora raccoglie il malconcio volantino d’uno spettacolo che la riporta al passato, al presente e a scoprire e decidere del futuro. Lui, dice l’annuncio, è lì a due passi, ancora con il suo tendone, anni dopo il loro distacco.

Il finale dipenderà dalla rivisitazione della loro storia, tra palazzi non solo d’eleganza ma di potere, grandi caravan, recinti d’animali, pagliacci, divise luccicanti e acrobati, mondi inaccostabili e sfida alle convenzioni, ai ruoli, alle attese, ghiotta merce per paparazzi e gossip. Il cammino dei due attraversa sfrontatezza e isolamento, strascichi familiari cupi o comprensivi, fino al silenzio e alla nuova finestra aperta dal vagabondare del circo.

Nel sangue d’oggi come d’ogni tempo i sentimenti hanno urgenza d’essere interpretati e narrati. Tornano alla mente le storie d’amore (spesso arrossate di crimine) del sovrano del noir Giorgio Scerbanenco (da Il grande incanto a Johanna della foresta, da Cristina che non visse a Noi due e nient’altro, tutti editi da Rizzoli) prima che Oreste del Buono convincesse l’amico a concentrarsi sul nero.

Bianchin ha esplorato un percorso inverso. Partendo da un meticoloso scavo giornalistico e letterario tra sventurati, piegati e violenti, banditi o stralunati, sempre anime da scoprire, ha individuato le curve delle emozioni nella semplicità e nelle lacerazioni di un amore anomalo e quasi fiabesco. La differenza fra genere e letteratura la fanno il sognatore chino sulla pagina e l’accorto scrittore.