Un Nobel per scrutarci dentro

Il Nobel a Kazuo Ishiguro , se almeno il premio Nobel spinge a leggere, può farci del bene. La sua è  letteratura di ciò che l’uomo porta dentro dimenticato o volutamente celato, in un intreccio d’orgoglio o vergogna, imbarazzo o impotenza. La motivazione rimarca che “nei suoi romanzi di grande forza emotiva ha scoperto l’abisso sotto il nostro illusorio senso di connessione col mondo”.

Nato a Nagasaki nel 1954 e trasferitosi bambino in Inghilterra con la famiglia, Ishiguro crebbe impastando le due culture (“non si è per tre quarti una cosa e per un quarto un’altra”).Grazie anche al film di James Ivory, il suo romanzo più noto è Quel che resta del giorno, protagonista il maggiordomo Setevens che, durante un viaggio nelle campagne inglesi, intreccia alla cronaca del momento il percorso della memoria: gli Anni Venti e Trenta, quando la sua fedeltà a lord Darlington si misurava con l’apertura di questi al nazismo, in un intreccio di giudizio e giustificazione.

Non così celebre ma romanzo straordinario è Un artista del mondo fluttuante (1986). Il pittore Mangji Ono, che ha goduto fama, prestigio, ammirazione degli allievi, potere e ancora in parte ne gode, avverte un progressivo scivolamento della propria figura: senza che gli siano tolti il formale rispetto e il formale inchino, il suo passato sta allontanando da lui il presente di chi lo circonda. E’ il passato del nazionalismo interventista, dell’invasione giapponese in Manciuria (1931), della seconda guerra mondiale. Il nuovo corso post-conflitto, il nuovo porgersi al mondo da parte del Paese vinto e il riemergere della sua storia personale come minacciosa ombra sono scanditi dalle figlie, dalle trattative per il matrimonio di una di loro, dal nipotino infatuato di eroi americani, cow boy e spinaci di Popeye-Braccio di Ferro, dall’allievo che per ottenere una cattedra gli chiede con imbarazzo una dichiarazione scritta su una presa di distanza dal maestro dei tempi rinnegati. E sono scanditi (come, in altro contesto, in Ivo Andric) dal ponte che separa la collina dov’è la sua villa dal centro di città che muta soffocando luoghi simboli d’una bohème e svelando nuove miserie.

Ishiguro risveglia il passato degli uomini, conduce al confronto con esso non con impatti secchi e traumatici, bensì attraverso un affiorare ineluttabile e un confronto con la memoria che in tutta la società contemporanea è andato svanendo (è di ieri l’arresto del killer Cesare Battisti, convinto che sul passato di spari e morti sia semplice e perfino doveroso far scorrere una spugna, “quel che è stato è stato”).

Chissà che questo Nobel non rinfreschi l’attenzione anche su altri nomi giapponesi, come Junichiro Tanizaki (1886-1965), che in Gli insetti preferiscono le ostriche narra un marito tradito dalla moglie che reagisce senza scomporsi e riscopre il fascino della cultura antica (ahimè anche quella per noi discutibile di fronte a figure femminili deputate a eccitare o accudire). O come Inoue Yasushi (1907-1991), che nei racconti Vita di un falsario innalza con tenerezza gli sconfitti: un biografo abbandona la ricerca su un celebrato artista perché affascinato dall’oscuro cammino dell’autore di falsi; la vita e il suo valore sono ridisegnati dalla leggenda della collina dove si abbandonano i vecchi a morire.

Se questo Premio Nobel accrescerà la diffusione di Ishiguro e altri autori giapponesi avrà a guadagnare la nostra assopita o bruciata capacità – o voglia, o coraggio – di guardarci indietro e dentro.