Ceronetti, poeta dell’Umanità perduta

Sotto gli occhi e attraverso la penna di Guido Ceronetti, morto ieri a Cetona, passavano secoli di cultura indagati con sapienza e passava la quotidianità spicciola elevata a simbolo della più pericolosa delle armi create al mondo: l’uomo.

Pareva impossibile che i toni spesso apocalittici, la raffinata veemenza, l’intransigente visione di tanti suoi scritti provenissero da quella figura minuta, gentile, con lo sguardo fanciullesco. Di “filosofo ignoto” parlò l’anno scorso in una bella intervista di Bruno Quaranta per La Stampa in occasione del novantesimo compleanno (“novant’anni di solitudine”), festeggiato con il suo Teatro delle Marionette.

Ceronetti non era un veggente e nemmeno un analista delle evoluzioni sociali, però era un poeta che  dilatava il presente, lo lasciava aprirsi sul domani. Nel 1975 Giovanni Arpino e Mario Maffiodo gli chiesero un testo per la rivista che avevano eroicamente fondato, Il racconto, che visse per undici numeri. Guido narrò il mare che si imbizzarrisce, piomba sulle rive e come un mostro animato scarica e ci restituisce tutto ciò che gli abbiamo rovesciato dentro, dalla plastica ai preservativi usati. Illuminava con la parola i filmati che vediamo oggi in tv.

Curioso di tutto, attratto con la stessa forza di Shakespeare dal male (memorabili le pagine sulla vittima di delitti) chiese alla cronaca della Stampa di guidarlo nella ricerca di materiale dal quale estrarre pensiero. Fu accontentato da Ezio Mascarino e da me con tale passione che in una composizione in versi fece esplodere e schiacciò anche la morbosità dei cronisti. Un po’ risentito, scrissi, adagiandola sui suoi versi, sulla sua metrica, una risposta in difesa della categoria, per restituirgli il suo attacco ribaltato. Ma non ero nessuno, impensabile la pubblicazione. Così consegnai quel gioco a lui. Si divertì, non tanto per la difesa, ma per la fatica di esprimere un preciso pensiero nella gabbia creata da lui: “Decidi poi che cosa vuoi fare da grande”, disse ridendo, “tutti e due insieme è dura, ma hai il privilegio di navigare dentro terribili cose”. Poi chiese: “Bevi qualcosa?”. Conoscendo le sue rigorose abitudini, per rivalsa risposi: “Un whisky, grazie”. Volevo vedere com’era Ceronetti indispettito anziché dolce e premuroso. Rispose: “Va bene”, e mi diede una tazza con un the che ordinava lontano.

Il sapore di quel the è rimasto nelle pagine dei suoi libri, profuma dagli scaffali. E adesso che non c’è più riavrò quel pomeriggio proprio dai libri, andando indietro nel tempo, dalle poesie alle traduzioni, dalla fiaba Aquilegia alla Musa ulcerosa, dalla raccolta di articoli La carta è stanca a Il silenzio del corpo, dedicato al grande enigma studiato da medici e poeti come dai pornografi.

Allo stesso modo non solo i testi, ma le fotografie del suo teatro, delle sue marionette evocano l’uomo Guido. Il Ceronetti che dopo i bombardamenti su Mostar decise di sensibilizzare, raccogliere fondi per quel teatro. A Roma, si piazzò davanti a un cinema con un organetto in occasione della prima di un film. I pochi colti lo riconobbero e aderirono entusiasti al progetto, stupiti e ammirati, Ma i più, cultori dell’evento mondano di per sé, non capirono d’aver di fronte, sotto quelle spoglie minute, la Cultura e lasciarono cadere distratti un’offerta a un bizzarro artista di strada.

La distrazione, la solitudine, l’egoismo dell’uomo lo rendevano appartato: “Come stare in questo mondo? Di ottimismo non sono fornito. Beninteso, non invito a uccidersi. Si è soli”, disse nell’intervista a Bruno Quaranta. Ma non era pro forma, non era inganno alla solitudine, quando chiedeva. “Come stai?” e aspettava la risposta quasi con partecipazione. L’ultima volta che l’ho visto era un po’ curvo, con il basco, appoggiato a un bastone, ma il volto aveva la densità del passato e del futuro fattosi presente, della speranza e dell’Apocalisse, e una dolcezza bambina.