Paure e desideri nelle città di notte

Guardi questi quadri e ti par di sentire Italo Calvino che ti invita a entrarci dentro, a mescolarti ai colori, ai muri, a rumore e silenzio: “Le città come i sogni sono costruite di desideri e paure , anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra”.

Smorfie di palazzi e richiami di lampioni, cavalcavia inquieti e auto spinte da fuga o irruenza, porfido che sembra cercare il cielo e binari come vene di un collo smagrito, prue di barche che puntano il lungofiume e manichini in vetrina come sentinelle d’una via o d’un quartiere, orizzonti o barriere di grattacieli e navi all’attracco, Torino e New York, Praga e Barcellona, Boston e Roma. C’è la vita che immaginiamo e temiamo, c’è il buio che s’illumina e si racconta nelle opere che Carlo Romagnolo esporrà da giovedì 21 febbraio al 23 marzo alla Floris Art Gallery di Milano (via Aretusa 30, wwwflorisartgallery.com).

Astigiano-torinese, formatosi all’Istituto Europeo di Design milanese, impegnato in un primo tempo nell’illustrazione editoriale, Romagnolo era pittore mentre studiava e si faceva prendere da passione per le luci di Monet e il colore di Van Gogh, le fughe anticipatorie di Turner e l’energia di Pollock o Vedova. Si è lasciato condurre, non per poi vantare nobili riferimenti scolastici, piuttosto crescendo portandoseli dentro e cercando se stesso. La sintesi più calzante la fa lui medesimo: “I bambini tendono ad assomigliare ora a papà ora a mamma senza nemmeno volerlo”.

Crescono e si nutrono d’altre esperienze, esplorano strade. Così l’artista esplora palazzi, vie, mari, porti, cartacce in volo, reperti di vita abbandonati ma non inutili. E sugli oli – che con tenerezza o tensione gridano “coraggio, vieni a mescolarti qui dentro” – si depositano, affondano, riemergono fotografie strappate, ritagli mezzi bruciati, fili di ferro, rianimati brandelli d’esistenza. Che non sono il tocco ad ogni costo provocatorio o la distorsione compiaciuta dell’immagine: di essa – della città, d’un faro o di un vagone affollato – sono parte, sono traccia del nostro passaggio, traccia che ci costringe a fermarci e scrutare noi stessi e il mondo che attraversiamo, e che domanda: come mi vedi qui dentro? estranea? arresa? furente? evocativa?

E se le persone – figure oltre il vetro della metro, un bimbo che guarda in basso, un volto da Nazareno consapevole e meditabondo – sembrano dirci “aspetta, se hai pazienza capirai l’anima”, è la notte di metropoli, di scorcio d’un quartiere, di movimento frenetico o smorzato a paralizzarci e insieme agitarci, perché è nella solitudine sconvolta dalle auto, dalle luci, dall’incombere degli edifici, sorvegliata dall’impassibile manichino, che diveniamo noi stessi, senza l’obbligo di recitare una parte assegnata, senza la pretesa di un inchino, senza una vittima su cui sfogare tristezze e dolori. Ed è qui, in questo sfumare e far emergere i colori fino a toccarci e chiamarci che Romagnolo ci costringe a camminare guardandoci intorno e guardandoci dentro.