Randagi di pace, uomini d’odio

A donne e uomini emarginati e oppressi ho dedicato il romanzo che sarà in libreria giovedì. Ma è dedicato anche alla memoria di un cane che scelse per sé la mia famiglia. E, attraverso lui, a tutti i randagi che ho incontrato e a quelli con i quali non ho avuto la fortuna di condividere vita.

Ti ammazzerò stasera (Golem edizioni) racconta la tempesta d’odio – spontaneo e pilotato – che investe una pacifica comunità all’arrivo d’un gruppo di migranti. A contrastare la ferocia sono un drappello di carabinieri, un ex galeotto e i randagi che vivono con lui. Quando sono in gruppo li chiamiamo branco, ma sono una famiglia e a far branco sono le persone. Diceva un grande scrittore e grande uomo al quale devo molto “L’animale vuole essere rispettato, e a distanza, quando mangia. Poi ridiventa socievole. L’uomo è animale socievole solo quando mangia. Prima e dopo uccide e si fa uccidere: la sua giungla è più lunga” (Giovanni Arpino, Diario bestiario).

Ho frequentato cani e gatti randagi a casa mia, su e giù per l’Italia, all’estero. Ricordo maestosi cani da pastore in fuga dal terremoto che arrivarono sfiniti a Rocca di Cambio (sopra L’Aquila, a 1400 metri): nel buio di certe notti  “chiacchieravo” con loro nel rifugio che gli aveva preparato Amerigo, il proprietario dell’albergo, da quell’incontro rimasto un caro amico. Ricordo gli imponenti e malconci “tibetani” affamati intorno ai monasteri del Sikkim: “Stai attento, pazzo”, mi ammoniva Alberto Bevilacqua quando portavo resti di cibo. Poi però venne a conoscerli anche lui. Ricordo squadre di randagi a caccia di cibo – militareschi dietro il capobranco – in un’Albania precipitata nel caos dal tracollo economico del 1997: cercavano avanzi nei cestini accanto ai mercati, ma i cestini erano troppo in alto: nelle notti tormentate di Tirana andavo a scovare pezzi di frutta o formaggio scartati per porgerli a loro. Fu fantastica la faccia del portiere di notte dell’hotel Dajti quando li vide schierati sul marciapiede ad aspettarmi e poi seguirmi come una scorta.

Tutti fratelli lontani di Joyce. Forse figlio d’una scappatella materna e forse creduto da piccolo un border collie, fu con probabilità scoperto piccolo bastardo disinteressato alle pecore. Dal comportamento dedussi che avevano cercato di insegnargli il lavoro a forza di botte. Per questo se ne andò e si sistemò a vivere sotto la pensilina dei pullman che collegavano il paese del Pinerolese con Torino. Fu lui a sceglierci – un uomo, una donna, una bambina in un passeggino – e ci seguì a distanza.

Arrivati davanti casa rimase incerto, ci guardò entrare ma non sfidò la siepe del giardino. Lasciammo tutto aperto e guardammo dai vetri. Pian piano, avanzando e arretrando e ancora avanzando, venne a curiosare, alla fine infilò il muso nell’ingresso. Si acquietò sotto le carezze, ma se una mano afferrava una scopa per ramazzare due briciole, strisciava indietro, mostrando i denti.

Si muoveva come su una nuvola, non lo si sentiva. Guardava la strada dal terrazzino in silenzio. Nessuno, nemmeno i padroni di casa – amici cari che abitavano al piano sopra della costruzione bifamiliare – si accorsero di lui. Andai ad avvertirli del nuovo arrivo ma furono tassativi: “Cani no”. Non indagai e non litigai. Caricai il randagio in auto, lo portai al canile: “Non lo affidate a nessuno, torno a riprenderlo al più presto. Intanto verrò ogni mattina per portarlo a passeggio”. Uscito dal canile andai all’edicola, comperai L’Eco del Chisone, il giornale locale, e cominciai a cercare nuova casa in affitto. La trovai in un paio di mesi. In quelle settimane ogni giorno mi alzavo in anticipo, andavo dal mio amico e via per i prati: “Non lo liberi, può perdersi”, raccomandavano premurosi operatori. Li rassicuravo e poi, appena girato l’angolo, sganciavo il guinzaglio e lo guardavo correre e tornare. Il quinto giorno gli presi il muso fra le mani e gli dissi: “Ti hanno chiamato Jolly, ma non è adatto a te. Per te ci vuole qualcosa di importante”. Per non cambiargli troppo il suono, lo chiamai Joyce.

Fatto il trasloco andai a prenderlo. La nuova casa era una larga villa divisa in verticale, con tre famiglie, un giardino comune, tre porte allineate. Sceso dall’auto, Joyce studiò l’edificio, la recinzione, l’erba, poi senza incertezze andò alla porta dietro la quale c’erano mia moglie, mia figlia e il gatto Valium (trovatello pure lui) che all’inizio fu diffidente, poi gli si affidò del tutto: gli si sdraiava contro e gli zampettava sulla pancia, quando sbucava un gattone estraneo e agguerrito correva a rifugiarsi dietro il suo fratellone che, senza fracasso, si limitava a far sentire un ringhio.

Fu un amico prudente, riservato, attento, soprattutto equilibrato. Quando camminavamo per strada, al mio fianco senza guinzaglio, qualcuno mi faceva complimenti per come l’avevo addestrato. Lo stesso al ristorante, dove si sdraiava sotto il tavolo, nulla chiedeva, volentieri accettava senza prender l’abitudine di pretendere. A una festa di mia figlia piccola si piazzò all’ingresso: annusava appena gli ospiti, come se dall’odore si dovesse decidere chi far entrare e chi no. “Bell’addestramento”, dicevano. “E’ nato già imparato”, rispondevo.

Era in guardia e teso a un semplice tono di voce prepotente ed era delicato con i fragili. Una sera mi precedeva verso casa. Svoltai all’angolo della via e lo vidi seduto accanto a un uomo su una sedia a rotelle. Imbarazzato domandai: “L’ha spaventato?”. “Affatto. Aspetto mi aprano lo scivolo e lui si è seduto qui come lo vede a farmi compagnia. Ha soltanto ringhiato quando sono passati quei due ragazzi rumorosi che venivano dalla sua parte”.

Faceva la guardia, ma soprattutto era vigile nella difesa della persona. Una volta, in un prato, ci venne incontro un contadino incazzato, forse un po’ bevuto. Agitava un rastrello contro di noi come fosse la falce della morte. Joyce scattò senza un suono, lo aggirò, fin  sotto il suo braccio destro e cominciò a ringhiare. Il poveretto si voltava per colpirlo, ma lui ruotava con lui, restando sempre dalla parte dove a quell’altro era impossibile piegare il gomito. A forza di girare su stesso, il randellatore vacillò stordito. Fui lesto a sorreggerlo e Joyce non ebbe nulla da eccepire, ma prese tra i denti il rastrello e lo trascinò più lontano.

La sera tardi andavamo a passeggio per il paese. Davanti ai giardini mi fermai a chiacchierare con i carabinieri di pattuglia. Il maresciallo notò una sagoma che, scorta l’auto con le insegne, si rifugiava lesta tra le piante dei giardini. Chiamò: “Chi è là? Vieni fuori”. Silenzio. Joyce, senza ricever comandi, scattò. Sentimmo una voce: “Maresciallo, richiami il cane e io arrivo”. Battei le mani e Joyce tornò: camminandogli di lato, a distanza.

Traslocammo ancora per venire nella vecchia casa di famiglia, in campagna, approdo di tanti animali. Un pomeriggio andai al camposanto, dove sono sepolti i miei genitori e portai Joyce con me. Non era mai stato in quel luogo. Al cancello mi precedette, girò sulla destra e sparì. Quando arrivai alla tomba di famiglia era lì seduto come guardasse le lapidi. Stupefatto raccontai l’episodio a Giorgio Celli, etologo e scrittore, e Celli mi disse: “Tienitelo per te, altrimenti diranno che alzi castelli su una casualità”. Eppure, obiettai, c’è qualcosa di straordinario. “E’ semplice: quel cane è in totale sintonia con te”

Anche Joyce invecchiò. Dopo sedici anni in piena salute, cominciò a star male. Il suo dottore, mio cugino Franco Fassola (che già l’aveva guarito da una filaria appena entrato in famiglia) mi fece respirare la realtà: “Adesso non staccarsi da lui è egoismo crudele”. Venne a casa, ci piazzammo su un divano come per chiacchierare, Joyce mi salì a fatica in grembo, si sdraiò e mentre mi guardava l’anestetico gli chiuse gli occhi.

La cremazione degli animali allora era collettiva, ma io volevo Joyce, non ceneri simboliche. Andai sulle colline del Verbano, pagai il necessario per aver l’impianto tutto per lui, lo adagiai io nel piccolo antro ancora gelido e gli diedi un bacio. Tornai a casa con le ceneri in una cassettina di legno, da allora rimasta su una mensola dello studio davanti a me.

Per dar vita al “meticcio con gli occhi bianchi” del romanzo ho preso la cassettina in legno e l’ho messa sulla scrivania. Ciao Joyce. Grazie ancora.