Uccidere lo specchio di sé felice

Said ha deciso di uccidere Stefano Leo perché era giovane come lui e, al contrario di lui, era felice. Said guardava la propria vita marcire e la odiava riflessa nel cammino di chi avrebbe voluto, dovuto essere. E l’ha ucciso “perché era italiano”. Inutile girarci intorno, l’ha dichiarato a verbale.

Questa motivazione, solitaria in una locandina appesa a un’edicola, evoca un razzismo al contrario o una vendetta mutuata dal furore dell’Isis. Ma in questa tragedia si deve avere il coraggio di calarsi cercando i dettagli, perché svela molto, e molto nel profondo. La Stampa ha pubblicato ieri – sotto il titolo con l’agghiacciante confessione – un articolo completo, minuzioso, asciutto eppure denso di sensibilità  di Giuseppe Legato e  Massimiliano Peggio, dove sono le parole dell’assassino a porgere anche il non detto.

Said è protagonista di una lenta e positiva costruzione di sé e del suo domani, costruzione che transita per l’amore e un’idea di futuro, poi sprofonda in un progressivo sfacelo. Narra d’aver pensato d’ammazzarsi, ma poi ha virato verso la morte di un suo specchio rovesciato, scegliendo un giovane uomo che non esibiva gioia, semplicemente era sereno. Ci sono anche immigrati felici e realizzati, perché l’assassino ha ristretto il campo? Non uno qualunque, ma un italiano: perché è più eclatante.

Stefano è vittima, oltre che di una persona in carne e ossa, di due killer: l’infelicità personale che deflagra e il fatto che l’omicidio è un grido e per essere grido ha bisogno di una vittima che sia dolore come il suo,  sia disperazione, paura, lutto corale e corale ira che dilagano, siano la condizione di tanti: “uno che conoscono tutti quelli con cui va a scuola, si preoccupano tutti i genitori”. Se ammazza uno straniero a nessuno importerà, qualcuno sarà contento, i più diranno “finché s’ammazzano fra loro”.

Ecco la discesa nell’atrocità aggiunta. Le origini di chi uccide e quelle di chi muore non sono la spiegazione semplice di un fatto. Sono una componente importante di un percorso psichiatrico del quale la realtà sociale del momento è a sua volta un tassello. Viene istintivo un parallelo con l’uomo del pullman, l’autista incendiario della Paullese. L’autista che trasporta bambini italiani e farfuglia di vittime del mare pianifica la possibile strage già facendo riferimento alla geografia, al confronto, alla contrapposizione, alla xenofobia. Said invece non fa rievoca il passato e nemmeno le peregrinazioni e le umiliazioni dei profughi, grida invece una diversità interiore esplosa con il suo individuale declino, grida un futuro tradito e si vendica annientando ciò che altri ma non lui è.

Se sul pullman si mette in atto una vendetta razzista, sul Po avviene la trasfigurazione di un impulso autodistruttivo, ma Said rinuncia a cancellare se stesso, cancella l’immagine di ciò che secondo lui la sorte gli ha impedito di essere. La relazione straniero-italiano, per la sua risonanza, per il contagio del pianto, è un mezzo anziché il fine. Non è una differenza da poco (non in termini di condanna, ma in termini di comprensione di ciò che è accaduto). In questa scelta della vittima italiana non per odio razziale ma perché eclatante e di più esteso dolore emerge qualcosa di tremendo: quando il clima sociale porta a far sì che un individuo si senta lui stesso inferiore, allora significa che il degrado del razzismo ha davvero attecchito.