Sangue al tamarindo nelle vene di Torino

C’è un che di vischioso nel sangue di chi uccide, di chi muore, di chi indaga, qualcosa che tutti fa aderire a un labirinto che impasta destini. Simile al  labirinto di gallerie che disegnano il sottosuolo della città.

Torino Tamarindo (Fratelli Frilli Editori) è il secondo giallo di Ivano Barbiero, una vita da giornalista, spesso di cronaca nera con boccate d’aria più lieve tra spettacoli, arte, musica. Sulla scena del crimine lo incontravi calmo e un po’ sornione (tipo “vedrai che sorpresa sta per arrivare”), adesso nei romanzi solletica il lettore tessendo attese e promettendo stupori.

Il suo commissario Piacentini (già investigatore nel precedente Il Guardiano dei Cavalieri) non è un duro dalla pistola facile, non è un metodico Holmes né un finto tonto come Colombo. E’ un uomo convinto del suo ruolo e titubante o remissivo nel privato, con una madre e una fidanzata (incontro in corso d’indagine) che non vanno d’accordo, attraversato da un intimo e antico turbamento davanti ai cadaveri. E il cadavere sul quale ora deve indagare è il più incredibile e assurdo che gli sia capitato, una macabra composizione di corpi diversi: per un terzo mummificato, per un terzo scheletrito, per un terzo quasi pietrificato. In uno dei tanti sotterranei di Porta Palazzo riconosce quella sorta d’orrendo feticcio, sa chi è. Forse capire perché l’hanno ucciso sarà routine di sbirro, altro sarà capire perché e come l’hanno conciato così e lì abbandonato.

Lo scempio e il ritrovamento sono tutt’uno con la scenografia: una Torino di viali e viuzze, fiume e mercati, antiche mura di ex ospedali e di chiese, cunicoli soffocanti, ampie e lugubri stanze sepolte. In quel mondo a due piani si agita o scivola furtivo il mondo di avventurieri della sorte, professionisti del sangue, donne bisognose di cuore o di sesso, pezzi di Stato gelidi o ambigui. Da due poli opposti – le gondole di Venezia e i bar di Tenerife – tornano a Torino figure che già hanno incrociato la strada del commissario.

Barbiero fa tutti muovere davanti a tre diverse cineprese. La prima segue intrigo e mistero. La seconda si inoltra nell’animo di ciascuno, coglie l’attimo di pietà d’un gelido killer, rievoca un fanciullo che, felice tra le giostre del Carnevale, vede passare il carro bianco, quello che porta i bambini morti. La terza scruta rasoterra i passi, liscia strade, scava scantinati e grotte di due città sovrapposte ma per qualcuno non estranee fra loro, tutte e due capaci di ancorare a sé i passi degli uomini come una goccia di colloso sciroppo sotto una suola àncora un cammino.