Voglia di non essere ancora morto

“Voglia di non essere ancora morto” è un verso del poeta Giancarlo Majorino Lo evoca alla memoria – per rivalsa, per sfida, per istintivo abbraccio – la frase che chiude il primo capitolo d’un libro, Il lottatore (Golem edizioni) di Guido Nasi: “La paura della morte: che stupido. Ora non vedo l’ora”.

Con queste parole Nasi stordisce i lettori e li fa risvegliare, com’è accaduto a lui, in un corpo quasi del tutto immobile, muto, ma con una mente lucida, ora prostrata ora ribelle. Scandendo i pensieri col battito d’una mano sul computer, ci racconta di se stesso e ci racconta di noi – impreparati, sfuggenti, pietosi, confusi – davanti all’altrui prigionia.

Parte dall’infanzia la narrazione. Un fanciullo normale perché come ogni bambino diverso dagli altri bambini, troppo buono o troppo cattivo senza mezze misure, talora bullo, legato a una madre aperta e presente, almeno in apparenza lui indifferente all’inesistenza d’un padre. Un ragazzo tra amori e contestazioni da liceale. Ma sorprende noi come lui il colpo della bottiglia di birra che, durante un viaggio di studi a Dublino nel luglio 1999, quando ha 17 anni, un uomo gli cala sulla testa per favorir la fuga d’un ladruncolo. Dopo quarantacinque giorni di coma, Guido si sveglia bloccato e senza parola. Un’alternanza di cure, una costanza di tenacia lo porteranno a muovere almeno la mano sinistra.

E’ rapida, lieve o impietosa la narrazione, è spigoli, punte, zavorre la vita. All’affetto, tra slancio e senso di colpa, della bella gente d’Irlanda fa contrasto in Italia il cinismo di camici bianchi che sembrano dar per certo che l’immobilità del corpo paralizzi anche i pensieri, ragionamento e sentimento. Invece in quell’involucro di pelle, dietro quegli occhi trasformati in vocabolario di assenso e diniego, c’è la cartina di tornasole delle nostre reazioni, della paura e dell’inadeguatezza, della superficialità e della pietà contrabbandata per amicizia.

Ma Il lottatore non è un grido d’ira e nemmeno un’invocazione di vicinanza. E’ un periscopio che fruga un’esistenza, mette a confronto il presente con un terribile “quando ero ancora vivo”. Sono visite, terapie, farmaci, progressi, dialoghi attraverso il batter di ciglia, l’alfabeto muto o il computer, mail che arrivano e mail che si diradano. Sono sfide all’impossibile, come la conquista di pochi metri dal letto al frigorifero, sentita e scritta come l’impresa colossale che è. Sono incontri, sono amore fraterno o di uomo e donna. Sono consigli pratici (a ogni fine capitolo) per chi è inchiodato a sé e per chi si accosta. Sono tensione o ironia o solitudine affidate anche ai versi: “ascolta /io amo il silenzio / vedi, / preferisco il buio / odorami, / sono inodore / e i cibi che gusto / non hanno sapore / toccami / sono impalpabile. / sono l’angoscia che / c’è in te / e in me”.

Guido Nasi narra tutto ciò senza una riga, una frase di pretesa o richiesta, senza compiangersi o celebrarsi. Sì, c’è anche solitudine in questo libro e a diluirla, a sfaldarla non è un lamento, bensì la sincerità, la consapevolezza, il coinvolgimento, senza illudersi o illuderci di trovare nella pagina successiva il trionfo che tutto cancella. Procede come se un sorriso ci avvertisse col garbo di una colonna sonora: non giriamoci intorno. E il lettore s’accorge che non è il racconto d’una carrozzina, è l’incontro con una persona che ci precede in una scoperta.

Consapevole o no,  Guido Nasi svela un uomo libero ad onta dei limiti fisici. Così libero da imporci quelle che Giovanni Testori chiamava “le parole che oggi non sappiamo più dire”, da indurci ad afferrare quel suo “non vedo l’ora” e leggerci dentro il verso di Majorino: “Voglia di non essere ancora morto”.