Il violino che risvegliò la Storia

In una scatola di cartone c’è un piccolo violino. Uno di quei casuali rimasugli di cantina, o di soffitta. Ma, anziché su una bancarella, finisce nelle mani di una ricercatrice, una storica, lì per lì  più perplessa e infastidita che attratta. Eppure quello strumento – che per dimensioni si direbbe appartenuto a un bambino – infiamma emozioni, perché rivendica la storia propria e di chi l’ha fatto vibrare

Guido suonava il violino è un temporale di teatro d’eccezione, punto d’approdo di una ricerca storica divenuta romanzo, Il violino di Nicoletta Fasano, narrazione dell’impasto fra studio, storia e sentimento (edito a cura di casa degli alfieri, archivio teatralità popolare, israt per i tipi di Nuova Jolly Graf), portato sul palco con testo e regia di Patrizia Camatel, luci e progetto sonoro di Tiziano Villata, scena di Agnese Falcarin. Attrice protagonista, in un magistrale monologo nel quale si alternano presente e passato, rabbia e dolcezza infantili, dedizione amore e crudeltà adulte una straordinaria Elena Formatici (qui nelle foto di Igor Delabriere), che nel continuo risvegliarsi in altri panni e cuori instilla nella platea pianti, gioie, tremori, turbamenti, autoassoluzioni, bombardamenti, rastrellamenti, filo spinato, treni blindati, lager, forni crematori, mentre la mente e le dita frugano frenetici negli archivi affinché un piccolo strumento diventi una vita umana per quanto incenerita.

Replicato con grande successo nell’Astigiano- anche grazie all’impegno di associazioni e amministrazioni locali – Guido suonava il violino è un testo dai tempi essenziali e perfetti, con una scenografia scarna che amplifica ogni gesto o sospiro o parola, con luci musiche e suoni scaturiti da una macchina del tempo, evocativi della Storia che tutto stravolge e dell’animo umano che la subisce.

Elena Formatici non interpreta, è la potenza evocativa, l’imperativo che vuole il violino tutt’uno con le mani innocenti che l’hanno odiato e amato. E’ il filo emotivo teso e contorto, ingarbugliato e tenace tra un presente che indaga da lontano e un passato che pretende luce.
Senza sbalzi, senza intervalli lo spettatore condivide l’inquietudine della ricercatrice e i bombardamenti del 1943, il mistero di una tazzina intatta e lo strazio degli edifici sbriciolati, l’affetto di un nonno e l’ira di un bambino che nello scatolone immagina la quiete del cucciolo di cane che desiderava per il compleanno e invece trova quel pezzo di legno che vorrà dire studio, noia, fatica, dolore alle dita.

La platea è parte del costante sovvertimento: gli amici cari e poi la solitudine, perché le leggi razziali recidono i legami con la vita, i giochi con un aeroplanino (Pippo, il ricognitore bombardiere che sorvola e annienta) e l’innocenza con cui un bambino confessa al padrone dell’orto dove il modellino è caduto che no, non è un regalo di Natale, perché lui non festeggia Natale. E la stessa Elena, che ci ha appena offerto il candore infantile, ci  farà ascoltare fra poco l’autoassoluzione dei delatori, che hanno denunciato la famiglia ebrea (tornavano comodi i soldi della ricompensa, e poi quegli ebrei li hanno soltanto portati a lavorare, a guadagnare…).

Le famiglie separate, i campi di concentramento, le stazioni, i convogli, i carri con il fieno sul pavimento, la disperazione adulta e l’ostinazione dei bambini a sognare avventura, il viaggio, i nomi sui cartelli (Brennero) intravisti tra le fessure del vagone, il puzzo di piscio nell’angolo, l’arrivo, il filo spinato, i campi. Laggiù i forni crematori.

 Guido suonava il violino non è un testo in più sullo sterminio. E’ il nostro coraggio di non considerare Storia passata, pagina annebbiata ciò che fu (“Meditate che questo è stato: / Vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore”. Primo Levi) e di sentire la vita – il sorriso o la tragedia – in un oggetto percorso dalla Storia e da una o più Vite come da corrente elettrica.

Due elementi rendono questa pièce ancor più straordinaria. Il primo è la linearità limpida del percorso. Tra l’oggetto, gli archivi, i nomi e le date che scorrono sul computer, le scosse nell’esistenza della ricercatrice, i fragori di bombardamenti o alluvioni, l’odore di cantina o quello dei camini non c’è strappo, non c’è soluzione: la corsa in avanti è quella del violino che esige il nome che dava identità alle dite incerte che lo saggiavano. Secondo elemento è la potenza esperta e naturale della recitazione di Elena Formatici. Se in monologhi illustri (Molly Bloom dall’Ulisse di Joyce o il disperato Gino di In Exitu di Giovanni Testori) il flusso delle parole è la libertà del pensiero che si torce, qui il monologo affianca al piccolo Guido l’affetto e il cinismo, l’apprensione e il rigore, la crudeltà e resa di altri nella loro realtà, un mondo realmente esterno e non filtrato dalla visione che lui ne ha, eppure il monologo è unico, è un solo itenerario che elimina tutte le linee, i contorni del mosaico e lascia che a scorrere sia un solo fiume. Quello dell’identità incancellabile, l’identità che sopravvive anche alla cenere.