Stupro, a volte è meglio il silenzio

Stupro e sentimento. E’ l’inconciliabile binomio creato senza volerlo da Debora Serracchiani. La presidente pd del Friuli-Venezia Giulia ha detto che un reato sempre orribile si fa ancor più spregevole quando lo commette un profugo cui questa terra e questa gente hanno offerto soccorso, riparo, cibo, aiuto, forse un futuro. E’ stata attaccata da nemici politici e bacchettata da donne del suo partito: concordi nel fatto che non esiste una classifica dentro lo stesso orrore e che anzi una classifica farebbe sembrar meno grave la violenza commessa da italiani. Com’è ovvio l’hanno approvata i professionisti della paura e dell’odio.

In realtà quell’affermazione è assurda all’origine.  Attribuisce sentimenti profondi come la riconoscenza a chi è pronto a un gesto così ripugnante, la capacità di bloccare in nome di essa la sua visione criminale della vita che non comprende il rispetto di un’altra vita. Non si può ipotizzare che una persona lanciata a prendersi una donna con la forza – per un’innata concezione del ruolo femminile o per un improvviso impulso feroce – si fermi a riflettere: voglio stuprare ma qui non devo, hanno fatto e stanno facendo molto per me. E’ come pretendere che i truffatori italiani specializzati in vecchietti rinuncino al colpo perché l’anziana che ha aperto la porta gli sta preparando pure il caffè. O pretendere che l’italiano violentatore della figliastra rinunci perché in fondo lei è stata generosa ad accettarlo come figura in qualche modo paterna. O ancora che quell’altro pronto ad aggredire la colf straniera sia illuminato dall’immagine di lei che gli spazza la casa.

Il criminale stupratore nasce tra le nostre mura, esce da costosi licei, dall’università, dai ghetti, e arriva anche con il barcone: dall’orrore e dalla sofferenza scappano tutti, anche i delinquenti, e non possiamo interrogarli in mezzo al mare e buttarne giù qualcuno come fanno gli scafisti. Qualunque sia l’origine, l’uomo dello stupro ha già superato la consapevolezza del male.

In un’epoca in cui la politica vive di comunicazione ad ogni costo, è probabile che la Presidente sia stata tradita da due spinte emotive: la coscienza di amministrare un’area dove molti esprimono tensioni rispetto all’immigrazione e una genuina, per quanto ingenua, fiducia nella riconoscenza quale sentimento diffuso e dominante.

La tristezza di quella frase e della polemica non è in un razzismo che non pare assolutamente appartenere a Debora Serracchiani. E’ nel disturbo dilagante in tutta la politica: cogliere spunti e cavalcarli, reagire emotivamente e con qualcosa che colpisca, via con una dichiarazione, questa funziona. Senza analizzare, senza riflettere, senza ragionare sugli errori precedenti: per quelli ci si dirà fraintesi, tolti dal contesto, manipolati, strumentalizzati. E intanto ci si disabitua a pensare, si finisce per ritenerlo un lavoro inutile. E il pensiero muore, le uscite clamorose riempiono pagine..

Scriveva Herman Hesse in L’ultima estate di Klingsor: “Chiarezza sui propri sentimenti e sulla portata e le conseguenze delle proprie azioni l’hanno soltanto gli uomini bravi e solidi che credono nella vita e non fanno un passo che non siano disposti ad avallare anche domani e dopodomani”.