De André e quelli che “lo Stato siamo noi”

E’ uscita su La Stampa una  bella intervista di Nicola Pinna a Cristiano De André.

Dalle domande, pensate e dirette, e dalle risposte, pronte e sicure, emergono la profondità e vastità – con le sue naturali aree grigie e le intensità non confessate – del rapporto tra padre e figlio, il legame con un “mito” del quale il figlio ha seguito con talento le orme, si percepiscono l’amore e la stima che Fabrizio rendeva manifeste agli altri con entusiasmo e a lui con rigore e consigli.

Cristiano racconta e ribadisce la convinzione anarchica e non violenta di suo padre, espressa già in Storia di un impiegato: “Certo bisogna farne di strada / da una ginnastica d’obbedienza / … / per diventare così coglioni / da non riuscire più a capire / che non ci sono poteri buoni”. A domanda diretta, risponde poi che forse oggi Fabrizio sarebbe vicino all’amico Beppe Grillo, soprattutto a fronte di una sinistra che ha rinunciato a essere se stessa.

Fermo restando che nessuno di noi può intervenire e dire o correggere che cosa oggi  penserebbe Fabrizio dei giorni che stiamo vivendo, qualche domanda è legittima riflettendo non soltanto su quel disco e su altri, ma anche sui suoi tanti appunti, sulle annotazioni poi raccolte in volume. Questo anche per paura che delle parole di Cristiano qualcuno sia tentato d’appropriarsi vestendole a piacer proprio.

Partendod a quanto cantava e diceva, con molte probabilità Fabrizio De André sarebbe davvero stato vicino al suo grande amico Beppe quando questi si batteva per far sì che le proteste civili non fossero solitarie, che divenissero coro, si sorreggessero a vicenda, che le voci di quanti erano schiacciati da un Potere acquistassero forza, volume, ascolto proprio grazie all’unione fra loro, come accade al protagonista di Storia d’un impiegato, che  passa dal singolare dell’inizio (“Di respirare la stessa aria / di un secondino non mi va”) al plurale della fine (“Di respirare la stessa aria / dei secondini non ci va”).

Ma, dopo il passo in avanti, avrebbe Faber approvato che quel coro da movimento diventasse partito, da partito divenisse governo e quindi Potere? Avrebbe approvato il matrimonio di Potere (“non ci sono poteri buoni”) con chi grida il suo potere contro gli ultimi, con chi interpreta Khorakhané come una partita di polo con le ruspe al posto dei cavalli?

Avrebbe Fabrizio De André approvato che quel coro, per bocca d’un giovanotto al comando, cantasse “Ora lo Stato siamo noi?”.