Odio e solitudine, la notte dei vinti

“A donne e uomini che hanno subito e subiscono l’odio e la solitudine. E alla memoria di Joyce, amico randagio che una mattina ci vide passare davanti al suo rifugio e scelse di condividere la casa e la vita con me, mia moglie e nostra figlia”.

Uscirà la prossima settimana Ti ammazzerò stasera (Golem edizioni), breve romanzo che non spetta a me recensire giacché l’ho scritto. Né voglio esibirmi nell’anticiparlo o spiegarlo. Trovo giusto invece raccontare (in due puntate, la seconda riguarderà i cani randagi) qualcosa sulla dedica a persone e animali cui mi lega un debito.

Cronista per mestiere dal 1978 al 2013, mai ho percepito un incontro come uno scoop, spesso ho pensato “mio Dio! che tristezza”. Ho attraversato odio, disperazione sangue e sempre ne ho cercato le sorgenti. Quando ho cominciato a scrivere queste pagine il clima sociale e i nuovi strumenti di comunicazione già rendevano più visibile e contagioso il desiderio di violenza, il piacere di vedere sconosciuti soccombere. L’urgenza di uscire da tensioni e frustrazioni interiori divengono sguardo compiaciuto, anziché confronto e monito, sull’altrui soffrire, su miseria, disagio, speranza negata. A chi è piegato dalla vita attribuiamo una posizione di inferiorità anche morale, un ruolo di malvagità e pericolo. Il dito puntato di uno lo condividiamo per sentirci al sicuro in un branco che in realtà è pronto a sbranare anche noi. L’odio si fa collettivo. E cavalcarlo, poi istigarlo, è più facile e fruttuoso che metterlo davanti a uno specchio e arginarlo.

Animi che paiono teneri invadono i social con nipotini davanti alla torta, musetti di cani e gatti, vanno in chiesa e pregano per un posticino riservato per sé in paradiso, intanto sognano scivoli puntati sull’inferno per gli altri, scaricano disprezzo, rancore, fandonie, sradicata vendetta verso chiunque riveli una diversità da loro, siano stranieri o gay, detenuti o barboni, zingari o fedeli ad altri cieli. E, insieme, ammirazione, fiducia, venerazione per chi sceglie i nemici, li indica, li usa.

Non è bello parlar di sé, ma a volte serve per spiegare. Ho già avuto modo di dire che il mio lavoro di giornalista è stato segnato, irrorato dall’amicizia generosa e tenera, forte e pacata di Fabrizio De André. In sintonia con quell’amicizia ho voluto che la mia penna e il mio taccuino abitassero in strada. Ho chiesto l’elemosina davanti a gradinate di chiese, ho fumato sigarette sulle panchine dei devastati dall’eroina, mi sono fatto migrante dalla Romania non ancora “europea” attraverso il confine sloveno, ho condiviso celle di carceri e di ospedali psichiatrici giudiziari, ho mangiato la porchetta in campi rom bersagliati d’improvviso con pietre o spari alla cieca, sono rimasto seduto giorni e mesi accanto ai parenti di sequestrati per estorsione e di vittime del crimine, ho portato in gelaterie e ristoranti anziché a letto giovani prostitute albanesi e ne ho ascoltato sgomento il martirio, ho sentito scoccare Natale nelle case di donne e figli amputati di mariti e padri da un disastro di fuoco sul lavoro, ho ascoltato la pioggia davanti alle tende guardando con i terremotati abruzzesi resti di paesi che crollavano vibrando sopra nuove scosse di terremoto.

Ho cercato di non essere un turista in uno zoo, un pescatore di colori per dipingere un successo professionale, un ghiacciolo umano che scova materia per un buon titolo a tutta pagina. Accompagnato da Fabrizio sono stato – con calma dolente o concitata paura – uno dei fantasmi schiacciati sotto macigni di emarginazione, violenza, sfruttamento, nella fatica della solitudine e dell’abbandono. Ci ho provato, almeno, ma la verità, pur sorridendo, me l’ha sbattuta in faccia Sergio, detenuto alle Vallette di Torino, seduti su una branda uno accanto all’altro: “Apprezziamo il tuo sforzo, lo spirito, la sincerità. Ma non capirai tutto comunque. Puoi intuire, sentire, ma non puoi essere noi. Perché tu sai che ti basta schioccare le dita per far scattare quei cancelli e andartene quando decidi tu, libero al mondo”. Grazie Sergio, avevi e hai ragione. Questo è il vero limite di qualunque giornalismo: tu non sei loro. Con la narrativa puoi fare un passo in più.

Proprio per questo, per colmare un poco quella lacuna, dedico il nuovo romanzo a tutti loro, “donne e uomini che hanno subito e subiscono l’odio e la solitudine”. E a loro lo dedico senza cadere a mia volta nell’odio per chi calpesta la fragilità. Ma per chi per suo tornaconto la sfrutta e istiga alla caccia mi concedo un sentimento a me estraneo: il disprezzo.

Dedicato alle vittime di ogni violenza fisica o morale Ti ammazzerò stasera è tutto intero anche una dedica tacita all’amico che mi ha impedito di diventare “quella gente consumata a farsi da retta” e di dimenticare “questi servi disobbedienti … che dopo tanto sbandare / è appena giusto che fortuna li aiuti”. E che sono venuti loro ad aiutare me a scrivere.